La Siria e la geopolitica di Erdoğan
Dall’isolamento alla centralità: con la caduta di Assad la Turchia ridefinisce il suo ruolo come argine alla Russia. E questo serve anche agli Stati Uniti
Questa è l’analisi che ho pubblicato il 15 Dicembre sul Substack “Appunti”, di Stefano Feltri.
Con la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria e l’avvento di un nuovo governo transitorio guidato da Mohammed al-Bashir, nuovo primo ministro ad interim fino al primo marzo 2025 si apre una nuova fase in Siria.
Fino a un mese fa, la Siria continuava a essere parte di lente, e spesso sterili, discussioni diplomatiche: si dava per scontato la sopravvivenza degli Assad, e il focus principale era forzare il presidente siriano a sedersi al tavolo con la Turchia per chiudere una volta e per tutte la fase che si era aperta con le Primavere Arabe e la rivoluzione/guerra civile siriana.
Nel corso delle ultime due settimane, però, dopo la presa di Aleppo da parte di Ha’yat Tahrir al-Sham (HTS) e l'Esercito Nazionale Siriano (SNA), la situazione è rapidamente cambiata, portando così alla fine del potere della dinastia alawita sulla Siria.
Questa rapida evoluzione è frutto dell’interconnessione di varie dinamiche, locali, regionali e globali.
Nell’evoluzione di queste ultime settimane, è apparso chiaro che la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan ha avuto un ruolo fondamentale in tale evoluzione, uscendo come uno dei principali – se non il principale – vincitore.
Lontani sono dunque i tempi della Turchia erdoğaniana isolata ovunque: esattamente cinque anni fa, l’intervento turco in Libia cambiava gli equilibri della guerra locale per il controllo di Tripoli, e apriva una nuova fase degli equilibri geopolitici nel Mediterraneo.
Con la vittoria in Siria, la Turchia ora sublima questa fase con un successo in un Paese che, per i turchi di qualsiasi estrazione politica e culturale, ha un valore geopolitico assoluto.
Dall’isolamento alla centralità
Nel periodo a cavallo tra novembre e dicembre del 2019, prendendo una qualsiasi delle questioni geopolitiche mediterranee dell’epoca, c’era un sempre un fattore che emergeva in tutta la sua strabiliante chiarezza: l’isolamento della Turchia, più o meno su tutti i fronti.
Lontani erano i tempi della politica di “zero problemi con i vicini” di Ahmet Davutoglu: la Turchia era prigioniera della sua “preziosa solitudine” (değerli yalnızlık): termine/concetto geopolitico coniato nel 2013, all’apice del supporto turco per i partiti islamisti post-Primavere Arabe, da İbrahim Kalın, allora principale consigliere per la politica estera di Recep Tayyip Erdoğan e attualmente capo dei servizi segreti turchi, tale concetto disegnava una politica estera basata sui valori morali in opposizione agli stati con politiche ritenute “immorali.”
Questa solitudine, però, aveva assunto contorni preoccupanti per la Turchia: Ankara era divenuta gradualmente sempre più isolata su quasi tutti i fronti. Con l’arrivo della Russia e dell’Iran in Siria, questo isolamento era diventato sempre più problematico, avendo due nemici storici piantati sull’uscio di casa, fondamentali per la sopravvivenza di un regime con il quale Ankara non parlava più.
In effetti, in quegli anni, la Siria era il principale grattacapo geopolitico per Erdoğan. Nel 2019, partendo proprio dalla Siria, l'invasione turca nel nord-est del paese con l'operazione “Barış Pınarı” (Primavera di Pace) aveva scatenato numerose e severe critiche da parte di molte capitali europee, e dell'opinione pubblica europea, in generale.
L’operazione, lanciata il 9 di ottobre, tre giorni dopo il ritiro delle forze americane dalla Siria nord-orientale, annunciato dall’allora presidente Donald Trump, mirava ad indebolire le forze curde siriane delle Unità di Protezione Popolare (YPG), che la Turchia considerava, e considera, affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).
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