Visioni transatlantiche sul successo turco in Siria
La vittoria turca in Siria, vista da un punto di vista transatlantico, va letta attraverso varie lenti: un successo notevole; transatlanticamente rilevante, ma anche ambivalente.
Introduzione: La vittoria turca in Siria
Con la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria e l’avvento di un nuovo governo transitorio, si è aperta una nuova fase politica in Siria. La rapida avanzata delle forze di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS - Organizzazione per la liberazione del Levante) e del Jays al-Watani al-Suri (SNA - Esercito Nazionale Siriano), dopo la presa di Aleppo, ha portato alla fine del potere più che cinquantennale della dinastia alawita sulla Siria. Sebbene le forze locali abbiano avuto visibilmente un ruolo di prim’ordine in questa dinamica, il peso delle variabili, e delle potenze, esterne è probabilmente altrettanto importante. In tal senso, la Turchia di Recep Tayyep Erdoğan ha giocato un ruolo fondamentale in tale evoluzione, uscendone come uno dei principali – se non il principale – vincitore, nonostante ciò che commentatori autorevoli – ma accusati da Ankara di una certa, latente “anti-turchità” – sostengano. Certo, non è detto che tutto andrà come Turchia desidera, e la Siria sarà – come è sempre stata – un paese in cui la competizione geopolitica tra potenze regionali e globali sarà forte e marcata. Ma, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, il tweet con il quale il nuovo ministro degli esteri siriano, Asaad Hassan al-Shibani, ha annunciato la sua prima visita in Turchia, lascia poco spazio a dubbi su quale sia la potenza di riferimento dell’attuale governo: “Domani (oggi) effettueremo la nostra prima visita ufficiale nella Repubblica di Turchia, che da quattordici anni non abbandona mai il popolo siriano, per rappresentare la nuova Siria.”
L’idea di una Turchia che eserciti la propria influenza sulla Siria non è un’idea peregrina, al netto di giudizi morali/normativi. Il che non significa che Ankara debba rivendicarne la sovranità, anzi. Significa solo che esistono legami di lungo periodo che hanno aiutato la Turchia a cementare la propria influenza sui gruppi locali, sia quelli nazionalisti sia quelli più islamisti.
In fin dei conti, il territorio che oggi appartiene alla Siria è stato per secoli nell’orbita imperiale di Istanbul, e tra i territori arabi dell’impero ottomano probabilmente e quello dove – quantomeno – le élite urbane sunnite, in particolare quelle delle città dell’attuale Siria settentrionale, avevano le connessioni più dense con il potere imperiale. Ad esempio, nel caso specifico di Aleppo, durante la dominazione ottomana, vi fu la separazione amministrativa con Damasco, che avvenne per decreto imperiale intorno al 1531, quando il sultano Solimano I “il Magnifico” visitò la città.
Pur conservando i legami culturali con il resto delle principali realtà urbane del Levante e della penisola arabica - Damasco, Cairo e le città sante dell'Hegiaz, Mecca e Medina – dal punto di vista economico ed amministrativo la città si andò legando sempre di più agli spazi dell’Anatolia meridionale, e in ultima analisi con Istanbul. Tali legami di lungo periodo hanno spinto alcuni, anche lo stesso Erdogan, a far notare come – se la Prima guerra mondiale e gli sviluppi immediatamente successivi fossero andati direttamente – parte di questi territori sarebbe stato probabilmente turco. Quando l’ex ministro degli esteri ed ex primo ministro Ahmet Davutoğlu, per anni anche ideologo dell’AKP prima di rompere con Erdoğan e uscire dal partito, parlava di “tarihdaş” riferendendosi alla “storia comune” che legava la Turchia ai territori non-turchi dell’Impero. Sebbene lui intendesse questi territori nella loro completezza, probabilmente la qualità e forza di questa “storia comune” è più forte ad Aleppo e dintorni che non in aree diverse, come ad esempio i Balcani, o anche in altri spazi arabi, dove la Turchia non è necessariamente vista con occhio benevolo, ma percepita come erede di una potenza imperiale e colonizzatrice.
Quindi, se nel lungo periodo questi legami sono forti, al tempo stesso, analizzando le dinamiche degli ultimi anni, gli sviluppi recenti sono stati relativamente sorprendenti: solo cinque anni fa, la Turchia di Erdoğan era isolata, e in difficoltà ovunque, internamente e nel suo vicinato, in particolare proprio in Siria. Alla fine del 2019, dopo mesi caratterizzati dalla sconfitta elettorale del partito di Erdoğan nelle elezioni locali in Turchia; dell’isolamento mediterraneo e medio orientale di Ankara; delle difficoltà degli alleati turchi come il Qatar, il Governo dell’Accordo Nazionale (GAN) in Libia e i gruppi legati alla Fratellanza Musulmana nel resto del Medio Oriente, la Turchia lanciava l'operazione “Barış Pınarı” (Primavera di Pace) il 9 di ottobre, tre giorni dopo il ritiro delle forze americane dalla Siria nord-orientale annunciato dall’allora Presidente Donald Trump, con l’obiettivo di indebolire le forze curde siriane delle Unità di Protezione Popolare (YPG), che la Turchia considerava, e considera, affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Tale azione venne condannata da quasi tutti gli alleati, americani ed europei, e la Turchia veniva accusata di attaccare le forze che avevano sconfitto lo Stato Islamico. Nel frattempo, le dinamiche in un altro scenario creavano le condizioni per un sorprendente cambio di paradigma.
Nel 2019, il Governo dell’Accordo Nazionale (GAN) guidato da Fayez al-Sarraj in Libia prossimo era al collasso a causa della rinnovata pressione delle forze del generale Khalifa Haftar, supportato dalla Russia. Mosca, inviando un centinaio di mercenari della Wagner, aveva fatto svoltare il conflitto in favore di Haftar. Con la fine delle operazioni militari in Siria tra fine ottobre e inizio novembre, Erdoğan decise di accettare le richieste di al-Sarraj, legando però l’intervento militare turco ad una concessione che, con il senno di poi, ha totalmente sconvolto gli equilibri geopolitici del Mediterraneo. Il 27 novembre, Tripoli ed Ankara siglarono il Memorandum d'intesa sulla delimitazione delle aree di giurisdizione marittima nel Mediterraneo. In cambio, la Turchia intervenne militarmente in supporto del GAN di Tripoli, cambiando in maniera fulminea le sorti della guerra, bloccando l’avanzata haftariana e di Wagner e rimandando indietro le forze dell’est, creando le condizioni per la fine della guerra ed il cessate il fuoco dell’ottobre 2020, diventando il protettore del governo di Tripoli. Guardando questa dinamica a distanza di un lustro, fu quello il momento in cui la Turchia, dalla Libia, iniziò ad uscire dall’isolamento, impostando il cammino di una ritrovata centralità che è poi culminato nella vittoria siriana.
Ora, quindi, la Turchia detta le carte in Siria. Tale successo ha rinvigorito ulteriormente l’approccio – già assertivo di per sé – di Erdoğan alla politica estera, come dimostrato dalle sue recenti interazioni con gli alleati del patto transatlantico. In teoria, la vittoria turca in Siria rappresenterebbe anche una vittoria transatlantica: la Turchia è membro della NATO dal 1952, rappresenta il secondo esercito dell’alleanza, ed è la sede del quartier generale dell’Allied Land Command, il comando centrale delle forze terrestri. La Turchia membro della NATO, però, è figlia di un’altra epoca storica, di altre esigenze e di altre contingenze. Nel corso degli ultimi decenni la Turchia ha diversificato profondamente il proprio approccio di politica estera, rafforzando la propria autonomia strategica, e le sue azioni non sempre avvengono in maniera coerente con il resto del blocco transatlantico. Pur se formalmente membro della NATO, e anche paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea (UE) – anche questa eredità storica di un’altra fase – la vittoria turca in Siria non si è tradotta direttamente in una vittoria dell’alleanza, nonostante i principali sconfitti siano russi e iraniani. Anzi, per alcuni membri dell’alleanza, in particolare in Europa, la vittoria e la rinnovata influenza turca in Siria rappresenta una sfida geopolitica non indifferente, per non dire un problema. Si pensi, ad esempio, a Francia, Grecia e Cipro. Rispetto alla prima, Hakan Fidan, il potente ministro degli esteri turco, ha accusato Parigi, definendo la Francia un “piccolo paese europeo” che si nasconde dietro gli americani per aiutare le forze curde anti-turche. Le relazioni tra Turchia e Francia sono storicamente tese, e negli ultimi anni la loro rivalità ha rappresentato uno dei leitmotiv geopolitici più significativi nel Mediterraneo. Grecia e Cipro, invece, sono preoccupate non solo per la crescente, complessiva influenza geopolitica turca nel Mediterraneo orientale, ma anche per questioni più mondane legate alla delimitazione dei confini marittimi tra Turchia e Siria, con il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il presidente cipriota Nikos Christodoulides che hanno informato i loro omologhi europei sulle discussioni in corso riguardanti un possibile accordo sulla Zona Economica Esclusiva (ZEE) tra Ankara e Damasco, accordo che andrebbe a creare problemi alla ZEE cipriota.
Il Quint Transatlantico e la Siria
In questa cornice complessiva, il 9 gennaio 2025, il Vice Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, Antonio Tajani, ha presieduto a Roma la prima riunione sulla Siria dei Ministri degli Esteri del cosiddetto Quint Transatlantico (formato, oltre all’Italia, da Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania), riunione alla quale ha partecipato anche l'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell'UE, Kaja Kallas. Avvenuta esattamente ad un mese di distanza dalla repentina e sorprendente fine del regime degli al-Assad, questo incontro ha definito le linee guida e le priorità del Quint rispetto alla questione siriana. La questione dei rifugiati è stata al centro delle discussioni, visto che sembra essere la preoccupazione principale – e in qualche caso unica – dell’Europa. Molti paesi dell’UE hanno annunciato la sospensione pressoché totale e immediata delle richieste d’asilo da parte dei siriani, e il principale obiettivo è cercare di far tornare in Siria più persone possibili, il prima possibile.
La discussione si è poi soffermata sulla questione delle sanzioni e sull’importanza di preservare l’unità territoriale della Siria. Sulle sanzioni, sembra che da ambo le sponde dell’Atlantico ci sia l’idea quanto meno di sospenderle ed avere un approccio graduale. Va aggiunto, da questo punto di vista, che sono gli americani ad avere potenzialmente un ruolo più significativo, e ad inizio gennaio Washington ha già emesso una deroga alle sanzioni, autorizzando una ristretta gamma di transazioni relative alla vendita di energia, forniture umanitarie e rimesse personali dall’estero.
I ministri del Quint hanno poi annunciato che lavoreranno nelle prossime settimane per promuovere uno stretto coordinamento tra loro, lavorando insieme per garantire una transizione pacifica e inclusiva che salvaguardi i diritti sociali, religiosi e politici di tutte le componenti della società civile siriana. Mentre le intenzioni, o quanto meno le ambizioni, sono abbastanza chiare, non si capisce bene cosa questi paesi possano fare se la transizione non dovesse muoversi lungo i binari da loro auspicati. Gli americani, nonostante l’annunciato disinteresse trumpiano, hanno determinate carte – economiche, militari – da giocare. Ma gli europei? Leggendo i social media arabi e le reazioni di molte voci locali, ed esperti regionali, gli europei vengono presi addirittura in giro rispetto alle loro richieste di inclusività alle nuove autorità siriane. Nella migliore delle ipotesi, queste richieste vengono viste come prova dei doppi standard e dell’ipocrisia europea.
Ad ogni modo, rispetto alla questione della “transizione inclusiva”, l’ascesa al potere del gruppo jihadista di HTS rappresenta una sfida non indifferente. Sebbene il leader del gruppo, Ahmed al-Sharaa, fino a qualche mese fa più noto come Abu Mohammad al-Jowlani, attualmente leader di fatto della Siria, insista sul fatto che non ci saranno né discriminazioni né attacchi contro i cristiani nel paese, e più in generale contro le minoranze religiose, e che le questioni legate alla “giustizia transizionale” saranno affrontate in maniera adeguata e senza vendette estemporanee, alcuni video emersi nelle ultime settimane dimostrano che tenere a bada le pulsioni di tutti i militanti di HTS e di altri gruppi, sia rispetto ai non-sunniti sia rispetto ai gruppi legati al vecchio regime, non è sempre facile.
Da questo punto di vista, bisogna capire se l’ordine, che già mostra qualche crepa, che HTS e gli altri gruppi di ex ribelli stanno mantenendo in queste prime settimane sia sostenibile o meno nel lungo periodo. HTS, in particolare, si sta presentando come forza politica focalizzata in primis sulla governance, mettendo in secondo piano jihad e altre questioni più ideologico/identitarie, con al-Sharaa che ha apertamente detto che la mentalità rivoluzionaria non è utile per costruire istituzioni, e che in questa fase si deve necessariamente adoperare un altro approccio. Tale orientamento vuole mandare il messaggio che – al momento – il focus è sul portare – e mantenere – tutte le differenti anime della Siria allo stesso tavolo, lavorando per creare e rafforzare le istituzioni, più possibilmente inclusive. L’idea di HTS come gruppo “moderato” però, è al momento ancora un po’ forzata: sebbene il gruppo non abbia più legami formali con Al-Qaeda e Stato Islamico, e anzi abbia rappresentato un nemico per questi due gruppi negli ultimi anni, esso rimane pur sempre un gruppo jihadista. Certamente un gruppo focalizzato sul Jihad contro il cosiddetto “nemico vicino” e con un approccio non globale ma localista e nazionale, ma pur sempre un gruppo jihadista. Tale approccio, sebbene non maggioritario nel corso dell’evoluzione recente dei gruppi jihadisti, è sempre esistito. Analizzando l’impianto ideologico e identitario di HTS, il gruppo si può certamente considerare un gruppo focalizzato su quello che alcuni osservatori hanno definito come “Jihad politico” – determinato in primis sul fornire servizi alle popolazioni sotto il proprio controllo.
Ad ogni modo, un gruppo jihadista per definizione rigetta il pluralismo religioso e politico, considera la democrazia “haram” e mira ad imporre un regime politico interamente basato sulla sharia. Per chi ha studiato le dinamiche in Idlib e dintorni, l’area governata dal gruppo negli ultimi dieci anni, sa bene che HTS ha governato tale area in maniera autoritaria, lasciando poco spazio a oppositori interni ed implementando la sharia in modo alquanto draconiano. Sebbene la realtà complessiva siriana sia diversa, ed in questo momento l’attenzione internazionale tale che muoversi su un crinale differente darebbe molti problemi, ad esempio rispetto alla sospensione delle sanzioni, questo passaggio non promette bene. Poi, non è detto che HTS non possa evolversi in un gruppo diverso che rigetti la violenza verso coloro che non ne rispettano i dettami – in fin dei conti molti dei gruppi jihadisti nati negli ultimi cinquant’anni erano gruppi della Fratellanza Musulmana che hanno poi deciso di seguire i dettami di Sayyid Qutb abbracciando la violenza. Poi, resta la questione legata a quanto – anche da gruppo che rigetti la violenza – si accetti la presenza di gruppi sociali religiosamente diversi, o non-religiosi, passaggio su cui anche i partiti legati alla Fratellanza Musulmana che hanno rigettato apertamente violenza e Jihad minore hanno però avuto difficoltà in altri contesti.
Rilevanza e ambivalenza transatlantica del successo turco in Siria
Questo incontro del Quint si è svolto un po’ in ritardo, quando le dinamiche in Siria si sono già definite da un po’. Sulla Siria, gli europei in particolare stanno giocando di rimessa, principalmente reagendo piuttosto che prendendo misure proattive, e dimostrandosi focalizzati – come già notato – quasi esclusivamente su questioni legate a migrazioni e ritorno dei rifugiati. Come spiegato in maniera relativamente approfondita all’inizio, l’evoluzione della situazione in Siria ha rappresentato chiaramente una vittoria per la Turchia, visto il ruolo fondamentale che Ankara ha avuto nelle dinamiche che hanno portato alla fine del potere della dinastia alawita, e all’influenza che essa ha su molti membri del nuovo governo. Un esempio su tutti: il già citato ministro degli esteri del nuovo governo siriano, al-Shibani, la cui biografia parla chiaramente di un legame fortissimo con la Turchia.
Da un punto di vista transatlantico, le implicazioni sono tante. Sia per gli Stati Uniti che per i partner europei, la sconfitta russa e iraniana in Siria è una buona notizia, sia come questione assestante sia per le sue implicazioni in altri teatri, come ad esempio l’Ucraina. Il Presidente eletto Trump ha già sottolineato il legame direttamente, visto che egli vede nella sconfitta russa in Siria un’opportunità per portare russi e ucraini al tavolo negoziale. Trump, nei due messaggi dedicati alla questione siriana apparsi su Truth, ha anche sottolineato come la Siria non sia una priorità americana e gli americani debbano restare fuori da tale questione. Tuttavia, l'idea che Washington possa semplicemente ignorare ciò che accade lì è irrealistica. Ci saranno pressioni da parte di parti della complessa macchina istituzionale americana, ad esempio il Congresso, per continuare a fornire supporto alle Forze democratiche siriane curde (SDF). È probabile che anche la rinascita dello Stato islamico spinga Washington a dedicare attenzione e risorse. Consapevoli di ciò, i leader delle SDF hanno apertamente collegato un eventuale ritiro americano alla potenziale rinascita dello Stato islamico in Siria.
Qualche giorno dopo, il Presidente-eletto ha definito l’intervento turco come “unfriendly takeover”: questo giudizio risente probabilmente dell’influenza che Israele ha sul suo modo di vedere tali dinamiche geopolitiche. Tramite i documenti che il regime di al-Assad non ha distrutto, o meglio non sia riuscito a distruggere data la velocità degli eventi, appare ora abbastanza chiaro che gli israeliani avevano tutto l’interesse a mantenere un leader debolissimo come Bashar al-Assad al potere. La sua debolezza aveva eliminato la Siria dall’equazione di sicurezza regionale come minaccia diretta ad Israele e, al tempo stesso, i servizi siriani spesso avvisavano Israele delle mosse iraniane nel paese; c’era una routine informativa consolidata con i russi che permetteva agli israeliani di avere una certa libertà, ed infine Israele non vede di buonissimo occhio la crescita esponenziale dell’influenza turca in Siria, come dimostrato dalle critiche israeliane alla crescente presenza diretta turca nel paese.
Inoltre, con i turchi che lavorano – come anticipato settimane fa dal Wall Street Journal– per lanciare un’offensiva nelle zone delle SDF curde supportate dagli americani, anche questo passaggio viene visto in maniera problematica. Ciò detto, l’elemento sistemico resta: la debacle siriana rappresenta la prima, vera, sconfitta strategica per russi e iraniani degli ultimi anni, e da un punto di vista transatlantico questo deve essere necessariamente essere visto come un successo. Inoltre, in questo senso, c’è anche un passaggio, meno netto, quasi nascosto, ma presente che va sottolineato: le amministrazioni americane, democratiche o repubblicane non importa, sono sempre più attente a quei paesi che – in teatri di un certo rilievo ma non così importanti da spingere gli americani a spendersi in prima persona – riescono, con le loro azioni a limitare i russi (e i cinesi). La Turchia, negli ultimi anni, è riuscita a limitare i russi in Libia, in Ucraina, nel Caucaso Meridionale, e ora in Siria. Sebbene Erdoğan non sia amatissimo a Washington, in particolare al Congresso, le capacità turche di ottenere risultati in contesti particolari vengono in genere notate e apprezzate, in particolare al Pentagono.
Trump anche lo ha fatto notare, parlando di Erdogan in una conferenza stampa ad inizio 2025 nella sua residenza di Mar-a-Lago in Florida. Quando gli è stato chiesto del potenziale ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria una volta entrato in carica, Trump ha risposto: “Non ve lo dirò, perché fa parte di una strategia militare” aggiungendo "Il presidente Erdoğan è un mio amico. È un ragazzo (Trump ha usato la parola guy) che mi piace, che rispetto. Penso che rispetti anche me” infine notando che “se guardate cosa è successo con la Siria, la Russia è stata indebolita, l'Iran è stato indebolito.” Questo commento è in linea con quello che viene detto, molto sottovoce, a D.C., anche su altre questioni. Ad esempio, da anni i turchi vengono lodati per l’azione di supporto al governo legittimamente riconosciuto di Tripoli in Libia contro l’azione militare di Khalifa Haftar, nel 2019/2020, azione che per molti doveva invece essere svolta dagli europei. Certo, la Libia è un capitolo diverso rispetto alla Siria, dove gli americani supportano apertamente le SDF, nemici di Ankara, gruppo che ha un forte supporto nel Congresso e in parte del mondo di D.C. e, come paese, ha un valore geopolitico più significativo rispetto alla Libia agli occhi degli americani. Ma qualche similitudine ancora esiste.
Per ciò che concerne l’Europa, al momento sia l’UE che i principali paesi membri vedono la questione siriana solo tramite la lente migratoria e del ritorno dei siriani nel loro paese, ora considerato “sicuro”. Qualsiasi altra considerazione sembra non esistere. In questo senso, l’Europa continua a faticare nell’emergere come attore effettivo sul piano internazionale, in particolare nel suo vicinato: da un punto di vista d’influenza geopolitica, come già accennato in precedenza, è quasi inesistente, visto che non né l’UE né alcuno dei paesi membri ha avuto alcun ruolo nelle dinamiche che hanno portato alla caduta di Bashar al-Assad, e sta giocando un ruolo di prim’ordine nell’influenzare le dinamiche sul terreno. Anzi, il principale paese europeo che era tornato in Siria, l’Italia, ci era andato con l’obiettivo di riabilitare il regime per poi permettere il rimpatrio dei siriani.
L’Alto rappresentante UE per la politica estera, Kaja Kallas, nel suo intervento sulla Siria alla plenaria del Parlamento europeo ha detto che come Europa “siamo pronti ad aumentare l’assistenza umanitaria” per la Siria; “dobbiamo adattare i nostri parametri di ripresa alla nuova realtà politica in vista di un’eventuale ricostruzione” e “iniziare a riflettere su una possibile revisione del nostro regime di sanzioni, al fine di sostenere il percorso della Siria verso la ripresa mantenendo al contempo la nostra influenza”. Al-Shaara ha collegato la fine delle sanzioni al rimpatrio dei siriani attualmente all’estero. Da questo punto di vista, probabilmente, anche lui utilizzerà la leva dei migranti siriani – e in questo caso del loro ritorno – per ottenere concessioni dagli europei, come sistematicamente fatto da molti leader mediterranei negli ultimi venti anni.
In quegli stessi giorni, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha anche visitato Ankara, indicando che la Turchia riceverà un ulteriore miliardo di euro per il 2024 per sostenere l'istruzione e la sanità per i rifugiati, la gestione della migrazione e delle frontiere, compresi i rimpatri volontari. Anche per l’UE, la vittoria turca in Siria ha diverse facce. Da un lato, una Siria eventualmente pacificata è certamente un interesse fondamentale per l’UE, sebbene si debba vedere quanto l’attuale situazione di relativa tranquillità, con tensioni e rivalità interne al momento sotto controllo, sia sostenibile. Se le cose dovessero peggiorare, difficilmente l’UE avrebbe le capacità – e la soprattutto la volontà – di intervenire apertamente per riportare ordine.
Erdogan, durante l’incontro con Von der Layen, ha anche espresso il desiderio di “ravvivare” la relazione con l'obiettivo di ammettere Ankara come nuovo membro dell'Ue, dicendo che “l’adesione della Turchia all'Unione Europea è ancora un obiettivo strategico”. Questo passaggio provocherà certamente qualche problema perché il processo è su un binario morto e la questione dell’adesione turca resta un argomento molto delicato per molte capitali europee. La vittoria turca in Siria darà ulteriore vigore all’attivismo turco in politica estera e probabilmente ciò significherà che le occasioni di attrito con l’UE e alcuni dei suoi stati membri, in particolare nel Mediterraneo, aumenteranno.
In questo senso, le probabili operazioni turche contro le forze curde in Siria rappresenteranno il primo bando di prova, con molti paesi membri, e una larga parte dell’opinione pubblica europea, che si schiererà in supporto dei curdi. Inoltre, i ritardi e le incertezze riguardanti l’adesione turca nell’UE verranno usati strumentalmente da Erdoğan. Ad esempio, per galvanizzare i turchi, accusando l’UE di “doppi standard” rispetto all’adesione turca, passaggio che in un paese dove ancora oggi la cosiddetta “Sindrome di Sèvres” è ancora particolarmente viva, paga sempre in termini di consenso. Inoltre, Erdogan userà queste incertezze per giustificare azioni assertive nel Mediterraneo e altrove, conscio anche che l’UE ha pochi strumenti per limitare l’influenza turca, come dimostrato in Libia, dove oramai Ankara gioca un ruolo determinate e dove gli europei sono stati completamente marginalizzati.
Conclusione
L’abbattimento del potere più cinquantennale della dinastia degli al-Assad in Siria, a seguito dell’avanzata di HTS e SNA e dell’instaurazione di un governo transitorio, ha aperto un nuovo capitolo per il futuro del paese. Sebbene l’azione delle forze locali sia stata rilevante, le potenze esterne hanno avuto un ruolo altrettanto determinante nel ridefinire il quadro siriano. Tra queste potenze spicca la Turchia. Erdoğan emerge quindi come uno dei principali vincitori, se non il principale. Dinamica relativamente sorprendente in particolare se si pensa che solo cinque anni fa la Turchia, e il suo leader, erano in difficoltà su svariati fronti. Dopo l’intervento in Libia a fianco del GAN nel Novembre 2019, Ankara ha gradualmente rovesciato la situazione complessiva. Il Memorandum d’intesa marittimo con Tripoli e il relativo intervento militare hanno segnato la fine dell’isolamento turco, ponendo le basi per una rinnovata centralità della Turchia nel Mediterraneo.
La vittoria turca in Siria, se vista tramite un prisma transatlantico, va quindi declinata in modi diversi. Tale successo non corrisponde automaticamente a un vantaggio per tutto il blocco transatlantico, nonostante la Turchia sia formalmente parte di questa alleanza. Le sconfitte russe e iraniane certamente rappresentano una vittoria strategica per il blocco transatlantico, ma una maggiore assertività turca in Siria, in primis contro le forze curde, nel Mediterraneo e altrove come risultato di questa vittoria porterà a tensioni, più o meno celate, con i partner americani ed europei.
Il primo incontro sulla Siria dei Ministri degli Esteri del Quint Transatlantico ha definito un quadro, per la verità abbastanza approssimativo e generico, degli interessi del blocco rispetto alle dinamiche siriane. Ma anche tra americani ed europei le vedute non sono propriamente simili. L’UE e molti dei suoi stati membri appaiono focalizzati quasi esclusivamente sulla questione migratoria e sul rientro dei rifugiati, questione considerata prioritaria a scapito di una visione più ampia e strategica. L’UE e i maggiori paesi europei non hanno avuto ruoli di rilievo nella caduta del regime di Bashar al-Assad; la loro influenza sul futuro della Siria, pertanto, era e resta limitata. Al di là degli aiuti umanitari e delle eventuali modifiche al regime sanzionatorio, l’Europa non dispone di leve paragonabili a quelle americane o turche.
Per gli americani, invece, Trump ritiene la Siria un dossier secondario ma non potrà ignorarne del tutto le dinamiche. Le pressioni interne (Congresso) volte a sostenere le SDF curde e la preoccupazione per l’eventuale ricomparsa di gruppi jihadisti (Stato Islamico) rendono improbabile un disimpegno totale. L’influenza israeliana sulla visione di Trump rispetto alla Siria contribuisce a complicare la lettura statunitense: il governo israeliano considerava preferibile una Siria ancora in mano ad un Assad estremamente debole. Un’eventuale espansione turca in Siria è vista con sospetto da Israele, che teme un riequilibrio degli assetti regionali a sfavore dei propri interessi. Trump, però, riconosce che la vittoria turca ha rappresentato un problema per iraniani e russi e, nel caso di questi ultimi, vede questo indebolimento come un’opportunità per forzare la mano di Putin su altri dossier, come ad esempio quello ucraino.
Forte dei successi in Siria, Ankara probabilmente intensificherà la propria proiezione geopolitica nel Mediterraneo e nelle sue immediate appendici, e questo potrebbe porre molti alleati transatlantici – si pensi ad esempio a paesi che hanno storicamente problemi con la Turchia, come Francia, Grecia e Cipro, sotto pressione, prova provata di quanto il successo turco in Siria sia transatlanticamente rilevante, ma anche ambivalente.
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Mediterraneo Globale - La Settimana Mediterranea - 2/2025
Mediterraneo Globale - La Settimana Mediterranea - 1/2025
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Mediterraneo Globale - La Settimana Mediterranea - Speciale "Correnti 2025"