Le ripercussioni transatlantiche dell’approccio di Donald Trump al Medio Oriente
Nel migliore dei casi, la prossima amministrazione Trump potrebbe creare un contesto in cui sarà possibile analizzare le cause profonde dell'instabilità nella regione, in modo innovativo e onesto.
Speciale “Trump 2025”: Questo è il primo di quattro post specificatamente dedicati all’analisi delle possibili traiettorie di politica estera della nuova presidenza americana di Donald Trump, chiaramente tutti con un focus mediterraneo.
Questo pezzo è una traduzione, aggiornata e riadattata, di un’analisi pubblicata dal German Marshall Fund of the United States (GMF) scritta da George Noll, State Department Fellow del GMF, diplomatico di lungo corso con quasi trent’anni di esperienza, il cui ultimo incarico è stato a capo dell’Ufficio per gli Affari Palestinesi degli Stati Uniti a Gerusalemme, ruolo che ha avuto fino alla metà del 2024.*
di George Noll, State Department Fellow, German Marshall Fund
Parlando con i leader politici europei un po’ di settimane fa, ho notato che erano pronti nel prepararsi per gestire eventuali divergenze con la nuova amministrazione Trump riguardo l'Ucraina e le questioni commerciali, ma non sembravano troppo preoccupati su future divergenze relative al Medio Oriente. Ad ogni modo, esaminando il futuro delle relazioni transatlantiche, è importante sottolineare come la prossima amministrazione Trump potrebbe stravolgere decenni di politiche – diciamo così – convenzionali in Medio Oriente.
Il cambiamento più drammatico potrebbe essere l'abbandono, o un mutamento sostanziale da parte degli Stati Uniti, del loro impegno storico verso la soluzione dei due stati, una politica già in qualche modo avviata, ma non completata, durante la prima amministrazione Trump. Questo rappresenterebbe anche un grave shock per l'UE e i suoi Stati membri, che tradizionalmente si sono schierati al fianco degli Stati Uniti come difensori della soluzione a due stati delineata dagli Accordi di Oslo. Diversi paesi europei si sono persino spinti oltre, riconoscendo la Palestina come stato.
Trovare posizioni comuni su come affrontare l'Iran non è una sfida né nuova né tanto meno recente, ma sarà comunque un tema centrale nei futuri dibattiti transatlantici su come affrontare il Medio Oriente. È altamente probabile che la nuova amministrazione adotti una posizione significativamente più dura nei confronti dell'Iran e dei suoi alleati, respinga la retorica e le formule tradizionali sulla soluzione dei due stati e tenti di sfruttare le strette relazioni di Trump con i paesi del Golfo e l'Arabia Saudita per ampliare il perimetro degli accordi di Abramo. Questi cambiamenti potrebbero, nel migliore dei casi, creare un contesto favorevole per un avere uno sguardo nuovo, e più onesto, alle cause profonde dell'instabilità della regione
La tragedia del 7 ottobre, così come le successive guerre a Gaza e in Libano, dimostrano come la minaccia iraniana e la questione riguardante il futuro politico dei palestinesi non possano essere scisse e continuino ad essere le cause centrali dell'instabilità regionale. La tattica israeliana, consolidata da decenni, di “gestire” il conflitto con i proxy iraniani tramite periodici attacchi mirati – il cosiddetto “tagliare l’erba” – a Gaza o nel sud del Libano si è dimostrata inefficace.
Per quanto riguarda la questione palestinese, il governo israeliano ha chiarito di essere contrario alla soluzione dei due stati. Anche una rapida analisi della storia della regione lascia poche speranze per il successo di queste vecchie strategie nel garantire sicurezza o stabilità. Il presidente eletto Trump dovrà decidere come ripristinare al meglio la stabilità e l'influenza americana nella regione, partendo innanzitutto dalla rapida risoluzione del conflitto in corso, come aveva promesso durante la sua campagna elettorale. Qualora dovesse riuscire in questo sforzo, allora avrà l'opportunità di proporre soluzioni.
Qualsiasi soluzione richiederà strategie che affrontino le minacce iraniane e offrano una prospettiva per una pacifica convivenza tra israeliani e palestinesi. Per quanto riguarda l'Iran, la minaccia di sanzioni e una possibile azione militare statunitense potrebbero spingere la nuova leadership iraniana a fare passi indietro, consentendo così la cessazione del conflitto e offra del sollievo ai civili a Gaza e in Libano.
La tregua in Libano, e l’evoluzione degli eventi in Siria, danno una qualche credibilità a questo esito; cosi come anche il cessate il fuoco a Gaza. Quindi, nonostante gli sviluppi chiaramente positivi rispetto alla ricerca di una soluzione complessiva coi cessate il fuoco in Libano e a Gaza, l’amministrazione Trump dovrà affrontare la questione del futuro dei palestinesi se desidera ottenere l’obiettivo di una piena e pacifica integrazione di Israele nel Medio Oriente.
Su questa questione, l'amministrazione Trump dovrà o incoraggiare tutte le parti a confrontarsi seriamente con le questioni di fondo che hanno impedito il raggiungimento della soluzione a due stati, oppure proporre un nuovo approccio alla questione palestinese. Considerate le posizioni precedenti dei membri della nuova amministrazione, sembra che la seconda opzione sia il risultato più probabile della vittoria di Trump.
Esistono già diverse versioni di questa visione di uno stato unico o di un’alternativa alla soluzione a due stati. L’ex ambasciatore David Friedman ha esposto le sue idee in un recente libro, mentre la precedente amministrazione Trump aveva delineato un’altra versione di questo nuovo modello nel suo “Accordo del Secolo.”
Qualunque sia il piano adottato dalla nuova amministrazione, porre fine rapidamente al conflitto a Gaza è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per convincere i palestinesi, e il mondo arabo, che le idee di questa amministrazione rappresentino una possibile strada verso un futuro più promettente.
Naturalmente, una soluzione duratura e sostenibile della questione palestinese richiederà l’accettazione sia del popolo israeliano che di quello palestinese. Nel contesto attuale, ciò appare improbabile, a meno che il piano non offra una prospettiva di futuro in cui sia i palestinesi che gli israeliani possano godere della stabilità e della sicurezza che meritano.
Indipendentemente da quale direzione deciderà di intraprendere, il presidente eletto Trump dovrà esercitare un'influenza efficace sul primo ministro israeliano Netanyahu per porre fine alla guerra e successivamente adottare i piani dell'amministrazione Trump per la regione. Netanyahu rimane un attore cruciale nel determinare il momento della fine della Guerra e il successo o il fallimento di qualsiasi piano di pace. Sarà interessante osservare come gli obiettivi di Netanyahu si allineeranno con le eventuali proposte del presidente eletto Trump su Iran e palestinesi.
Una differenza fondamentale rispetto al primo mandato di Trump è che il 7 ottobre e la guerra a Gaza hanno modificato l'importanza relativa della questione palestinese nella regione; l'Arabia Saudita ha dichiarato che una soluzione al problema palestinese è ora una precondizione per intraprendere un qualsiasi percorso di normalizzazione con Israele.
Per affrontare con successo le cause profonde della continua instabilità in Medio Oriente, il presidente Trump dovrà anche trovare un modo per convincere il popolo palestinese, che lo ha sostenuto in numeri sorprendentemente alti, che la sua visione includa un futuro di speranza sia per loro che per gli israeliani. Su questo aspetto, potrebbe esserci spazio per una cooperazione transatlantica, in particolare se i leader europei riusciranno a collaborare strettamente con i palestinesi, dimostrando flessibilità nell’approccio, la volontà di mettere in discussione l’ortodossia imperante sulla soluzione dei due stati, e l’impegno a dialogare con i nuovi responsabili della politica statunitense per sviluppare insieme soluzioni creative.
*Questa è una traduzione ed adattamento in italiano dell’articolo pubblicato dal German Marshall Fund il 26 novembre 2024, intitolato: “Transatlantic Impacts of Trump’s Middle East Policy”
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