Trump fa sul serio sul disimpegno in Medio Oriente? Osservazioni dalle prime nomine
La scelta di Michael DiMino al Pentagono come vice assistente segretario per il Medio Oriente suggerisce che ci sia l'idea di trasformare il disimpegno regionale da ambizione a solida realtà.

Subito dopo la sorprendente presa del potere in Siria da parte dei ribelli supportati dalla Turchia, il Presidente Donald Trump aveva detto, nei due messaggi dedicati alla questione siriana apparsi su Truth, che la “Siria non è una priorità americana” e gli americani devono restare fuori da tale questione. L’idea che Washington possa di colpo ignorare ciò che accade in Siria, e più in generale in Medio Oriente, è certamente irrealistica, visto che ci saranno pressioni da parte di varie parti della complessa macchina istituzionale americana – dal Congresso a gruppi di pressioni vari ed eventuali – che proveranno a spingere l’amministrazione a restare impegnata anche su questi fronti.
Ciò detto, la nomina di Michael (Mike) DiMino al Pentagono come vice assistente segretario per il Medio Oriente va osservata con attenzione, perché – date le sue posizioni note su molte di queste questioni – potrebbe davvero dare sostanza all’idea che siamo agli albori di un cambiamento strutturale nell’approccio medio orientale degli Stati Uniti.
Ex analista militare della CIA e già funzionario al Dipartimento della Difesa durante la prima amministrazione Trump, Michael DiMino, è stato scelto personalmente da Elbrige Colby, colui che sarà probabilmente una, se non l’eminenza grigia, dell’approccio trumpiano alla politica internazionale.
Negli ultimi anni, DiMino ha lavorato come analista per Defense Priorities. Questo think tank che si definisce “hub of realism and restraint”, fondato nel 2016 da alleati del senatore libertario repubblicano Rand Paul eletto in Kentucky e finanziato dai fratelli Charles e David Koch, è da anni in prima linea nello spingere gli Stati Uniti nel ridurre la propria presenza in Medio Oriente. Questa provenienza è interessante, perché Trump è da anni impelagato in un conflitto latente con Charles Koch, con il presidente che aveva apertamente dichiarato di non voler nessuno nella sua amministrazione con legami più o meno visibili coi Koch.
Uno dei cavalli di battaglia di DiMino riguarda la scarsa importanza del Medio Oriente per Washington: “non ha realmente” rilevanza per gli interessi nazionali degli Stati Uniti, ha ripetuto più volte, definendo le potenziali minacce nella regione come “minime o inesistenti” e non esistenziali, ribadendo che la presenza militare americana ha prodotto pochi benefici tangibili. Per lui, l’unico interesse reale che Washington continua ad avere è quello legato al contenimento del terrorismo, ma ci sono approcci diversi – rispetto a quelli avuti in questi anni – nel perseguirlo. Per questo, ci si deve affidare alla diplomazia, ai partner locali, alla raccolta di intelligence e ad attacchi specifici a lungo raggio, piuttosto che continuare ad avere una presenza diretta, dispiegando truppe e mantenendo avamposti militari in posti l’Iraq e Siria.
In questo quadro, DiMino ha anche ripetutamente sollecitato una revisione complessiva della presenza militare statunitense nel Golfo, sostenendo che le forze americane nella regione fungono semplicemente da bersagli convenienti per l’Iran e i suoi proxy. Rispetto a questi ultimi, DiMino si è anche mostrato scettico rispetto ad un eventuale tentativo militare di contenere la minaccia degli Houthi nel mar Rosso, sostenendo che invece la soluzione fosse diplomatica, e andava perseguita spingendo Israele nel permettere l’arrivo di aiuti a Gaza e di moderare il proprio approccio.
Le opinioni di DiMino sull’Iran sono in linea con questo approccio complessivo. In un’intervista del febbraio 2024, DeMino dichiarò che le affermazioni secondo cui l'Iran sarebbe in procinto di dominare il Medio Oriente rappresentano un allarmismo ingiustificato, un discorso superficiale e privo di fondamento empirico. Egli descriveva l’Iran come una minaccia di “secondo livello” contenibile e con capacità di proiezione di forza convenzionale limitate. DiMino si è anche detto contrario ad eventuali bombardamenti contro le strutture nucleari iraniane, l’opzione “Osiraq” – riprendendo l’azione che gli israeliani fecero nel 1981 contro le strutture nucleari irachene – che ogni tanto qualcuno in Israele ripropone, ritenendo che tali attacchi provocherebbero una ritorsione senza freni da parte di Teheran.
Gli attacchi con missili balistici dell’Iran contro Israele, che per alcuni avevano aiutato Teheran a ristabilire una sorta di deterrenza con Israele, sono invece stati descritti da DiMino come risposte “abbastanza moderate” alle operazioni israeliane. Per lui, l’Iran aveva deliberatamente mostrato moderazione, nella logica di un un possibile ritorno a un accordo simile al JCPOA sotto una futura amministrazione (democratica) statunitense. Con l’Amministrazione Trump l’idea che ci sia un nuovo JCPOA è irrealistica, sebbene Trump potrebbe provare a sfruttare la debolezza attuale del regime iraniano per forzare la mano e portarli a negoziare, sebbene su piano molto diverso da quello su cui negoziarono americani e europei nel 2015.
Per i conservatori pro-Israele senza se e senza ma, la nomina di DiMino – e la presenza del suo mentore Colby al Pentagono – sono fumo negli occhi. Ad ogni modo, questa nomina suggerisce in maniera abbastanza palese un tema che sarà ricorrente in questo mandato: l’orientamento limitazionista rispetto al Medio Oriente visto che le priorità sono altrove. La riunione del Quad asiatico del 21 gennaio dimostra come il focus principale sarà sull’Indo-Pacifico. L’idea, quindi, è quella di un coinvolgimento regionale minimo: l’Iran - dal 1979 spauracchio politico-psicologico americano, attore che ha certamente beneficiato anche dell’harakiri strategico neoconservatore del 2003 in Iraq, impresa militare che ha aperto le porte alla crescita dell’Iran come potenza regionale - non rappresenta quindi una minaccia esistenziale, ma un avversario gestibile. Tanto più ora che, dopo la debacle siriana, Teheran è più debole di qualche anno fa.
Questo approccio passa anche attraverso un’eventuale pressione moderatrice americana rispetto ad Israele, il che non significa un abbandono diplomatico e politico – ciò non accadrà mai – ma un riordino, sia delle gerarchie tra i due alleati, nell’ultimo anno è stata evidente la mancanza di influenza americana su Israele, sia dell’approccio complessivo israeliano rispetto a Gaza, al rapporto coi palestinesi e alla regione. Da tale riordino passa anche il futuro degli Accordi di Abramo, vera stella polare strategica di Trump. Questo approccio complessivo sarà probabilmente indigesto a larga parte dell’establishment filo-israeliano repubblicano ma probabilmente rappresenterà una delle cifre strategiche caratterizzanti l’operato dell’amministrazione Trump in questo secondo mandato.