Un tycoon tra i leoni: La Presidenza Trump e l’Africa
Il presidente ripenserà la presenza USA in Africa secondo i suoi canoni. Tra Starlink e AGOA Trump ha buone carte da giocare.
Speciale Trump 2025: Questo è il terzo di quattro post specificatamente dedicati all’analisi delle possibili traiettorie di politica estera della nuova presidenza americana di Donald Trump, chiaramente con un focus mediterraneo.
Luciano Pollichieni, Senior Analyst della Fondazione Med-Or e Teaching Fellow all’università Luiss di Roma; esperto di Africa con un dottorato dall’università di Nottingham; spiega le potenziali traiettorie e scelte di Trump in Africa, spazio che probabilmente non è al centro dell’agenda strategica del 47esimo Presidente ma, che in un modo o nell’altro, farà sentire la propria importanza.
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di Luciano Pollichieni, Senior Analyst, Fondazione Med-Or e Teaching Fellow, Università Luiss
L’Africanista che non ti aspetti
Durante il suo primo mandato, l’approccio di Donald Trump agli affari africani non è certo cominciato con il piede giusto. Poche settimane dopo l’insediamento alla Casa Bianca, il presidente americano apostrofò i paesi del Global South (inclusi quelli africani) come shithole countries e da lì fine mandato il suo rapporto con gli stati del continente è stato (almeno mediaticamente) segnato.
Tuttavia, un’analisi oggettiva del primo mandato di “The Donald” traccia un bilancio diverso dei rapporti con il continente. L’Africa non è diventata prioritaria (non lo è mai stata per nessun presidente americano) ma sicuramente il tycoon repubblicano è stato capace di piazzare qualche buon colpo. Qualche esempio: il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, è riuscito a far avvicinare Eritrea ed Etiopia per trovare una soluzione sulla storica disputa dei confini, uno dei conflitti più sanguinosi e prolungati del continente; oppure la creazione della United States International Development Finance Corporation (DFC), agenzia del governo statunitense incaricata di sostenere finanziariamente i paesi in via di sviluppo, passaggio che ha suscitato l’approvazione di apparati e capi di stato. La Presidenza Trump è anche quella che ha portato al delisting del Sudan dalla lista degli stati sponsor del terrorismo, nell’ambito del perimetro degli Accordi di Abramo, seppure in cambio di risarcimenti particolarmente onerosi per Khartoum sul piano finanziario.
Trump piace agli africani, o almeno ad alcuni dei loro leader. Dovendo spiegare il perché, si può partire da tre punti: governi e popolazioni apprezzano il suo approccio transazionale alle relazioni internazionali, la sua scarsa inclinazione all’attivismo militare e il suo riconoscimento della sovranità altrui, fattore quest’ultimo particolarmente apprezzato dopo decenni (secoli?) di ingerenze - vere o presunte - da parte dell’occidente negli affari interni dei singoli paesi. Questi presupposti alimentano le aspettative del continente rispetto alla presidenza di Trump su cui però pesano due interrogativi: 1) A Trump importa dell’Africa? 2) Se sì, cosa intenderà fare nel continente?
Perché non si può far a meno dell’Africa?
L’Africa difficilmente ha assurto a un ruolo prioritario nell’agenda dei presidenti americani. Quando lo ha fatto si sono messe in luce una serie di fraintendimenti e idealizzazioni del continente che sono molto lontane dalla realtà. Il non essere prioritaria non è però necessariamente collegato all’oblio totale del continente. Esistono dei buoni motivi che fanno intuire come Donald Trump possa riservare al continente una qualche forma di attenzione e soprattutto di azione. Tra questi i più rilevanti sono:
La rivalità con la Cina e la necessità del suo contenimento. Una strategia che, giocoforza, passa anche per una presenza in alcune zone circoscritte del continente, come il Corno d’Africa attraverso cui passa il cosiddetto filo di perle, cioè quella serie di installazioni militari (e di alleanze in senso lato) che dovrebbe contenere l’espansione cinese perseguita tramite la Belt and Road Initiative (BRI).
L’accesso alle terre rare (i cosiddetti materiali critici) necessari per l’industria dell’automobile e dei semiconduttori. Interesse vivo anche presso la nuova classe dirigente trumpiana che si è espressa favorevolmente alla prosecuzione del progetto in linea teorica. Un vero e proprio attestato di stima se si considera la scarsa inclinazione di Trump e del suo entourage a riconoscere i meriti dei democratici.
Il fattore Musk cioè l’interesse di una parte della nuova tecnocrazia conservatrice ad estendere la propria rete di clienti nel continente che, bene ricordarlo, è il più giovane al mondo e di conseguenza parecchio incline ad interagire con le nuove frontiere della rivoluzione digitale.
Gli interessi di fondo per giustificare la formulazione di una strategia africana da parte di Trump sono visibili e sul tavolo e in questo contesto è giusto domandarsi cosa e come il tycoon vorrà fare nel continente. Esercizio difficile se consideriamo come l’imprevedibilità è una delle caratteristiche intrinseche di Trump in quanto presidente e del trumpismo, volendo definirla come dottrina.
Appunti e ipotesi sull’Africa trumpiana
Il primo elemento su cui Trump probabilmente investirà per la propria politica africana è, paradossalmente, la sua stessa immagine. Si tratta dell’immagine del selfmade man, del dealmaker un’immagine che per quanto possa essere criticata o decostruita in alcuni ambienti esercita un certo fascino presso una parte dell’opinione pubblica africana e dei suoi leader. Se prendiamo il caso di capi di stato come il presidente del Kenya, William Ruto vincitore a sorpresa delle presidenziali del 2022 come candidato “antisistema”, le similitudini con Trump sono effettivamente evidenti. Il manifesto elettorale di Ruto si intitola Kenya Kwanza (Prima il Kenya) e anche l’attuale capo di stato keniota ha investito molto nella sua immagine di selfmade man nutrendo il proprio elettorato con la storia motivazionale del bambino che vendeva polli nelle strade di Nairobi diventato poi il presidente della propria nazione.
Argomento controverso con cui il tycoon dovrà misurarsi è invece quello del commercio. Nel 2025 le autorità americane dovranno rinnovare l’AGOA, l’Africa Growth and Opportunity Act (AGOA), l’accordo di libero scambio che consente alle imprese africane di accedere al mercato americano. Una legge che mal si concilia con il protezionismo promesso da Trump che a tratti sfiora la piena autarchia (almeno a parole). Tuttavia, come dicevamo sopra, le materie prime africane giocano un ruolo non trascurabile all’interno della dinamica di reshoring legata al protezionismo che Trump vuole adottare in politica economica (senza litio e cobalto non si producono macchine negli USA).
D’altro canto, è possibile che Trump, considerando il suo approccio transazionale alle relazioni internazionali, possa decidere di restringere o cancellare l’AGOA tenendo attivo e fornendo maggiori fondi nella DFC, struttura fondata durante il suo primo mandato ma sottoutilizzata dall’amministrazione Biden che ha deciso di ricorrere ai servizi delle strutture tradizionali come USAid (più fedeli ai democratici). Nel contesto economico, Trump sembra invece interessato a mantenere in piedi dei progetti chiave come la costruzione del Corridoio di Lobito.
Tuttavia, i rapporti tesi tra Trump e l’Unione Europea potrebbero mettere in difficoltà il coordinamento tra i due soggetti nel contesto della Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII). Trump, predilige relazioni bilaterali e potrebbe valutare una maggiore partecipazione americana diretta (finanziaria e non solo) al progetto, riducendo il ruolo dei soggetti multilaterali e ponendo gli Stati Uniti come partner principale.
Sul piano delle relazioni commerciali merita una menzione a parte il ruolo di Elon Musk e della sua Starlink. Il provider satellitare di Internet sta riscuotendo un discreto successo in Africa, mettendo in crisi aziende e tecnocrati del continente, guardinghi rispetto alla penetrazione dell’azienda di Musk nei mercati locali. Anche in Africa, come in Europa, Il timore è che il servizio satellitare offerto da Starlink possa indebolire i governi africani in sede negoziale rispetto al miliardario sudafricano, che potrebbe arrivare ad interrompere i servizi in qualsiasi momento. Con un sistema della connettività via cavo più tradizionale sistema, questo rischio non esisterebbe. Al netto di queste valutazioni, l’exploit di Starlink si presta bene all’obiettivo trumpiano di contenere l’espansione cinese in Africa. In quest’ottica. il presidente eletto non esiterà ad usarlo.
Sul piano securitario invece, è molto più probabile che vedremo Trump fare Trump, cioè: ridurre al minimo l’impegno militare americano, lasciando mano libera agli attori del continente, con tutti i rischi che questo comporta sul piano umanitario e, più in generale, della stabilità. In questo contesto, il tycoon incoraggerà i partner privilegiati degli USA nei quattro angoli del continente (il cosiddetto sistema delle ancore) a rafforzare con un supporto minimo da parte degli USA le proprie aree di influenza nel continente.
Questa dottrina dovrà ovviamente misurarsi con le diverse crisi regionali in corso nel continente dove il presidente potrebbe agire in maniera abbastanza variegata, mescolando rottura e continuità. Nel Sahel, ad esempio, sembra difficile che il tycoon possa agire in maniera diversa dal suo predecessore che ha adottato un approccio pragmatico rispetto alle relazioni con le giunte golpiste e offrendo supporto ai paesi rivieraschi. Questo light footprint confermato anche nel manifesto del Project 2025 redatto dalla Heritage Foundation da molti considerato per mesi come il programma (non riconosciuto) della presidenza Trump e che prevede il mantenimento dell’impegno militare USA in Africa nel contesto dell’antiterrorismo
Diverso il discorso per quanto riguarda il Corno d'Africa, dove Trump potrebbe far sentire maggiormente il cambio di passo rispetto al suo predecessore. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca potrebbe portare ad un ripensamento a 360 gradi delle relazioni tra gli USA e i paesi del Corno d’Africa, partendo ad esempio dal ricucire i rapporti con l’Etiopia (che si sono notevolmente deteriorati sotto la presidenza Biden).
Agli occhi di Trump, il primo ministro etiope Abiy Ahmed è un partner potenzialmente importante, fanatico dell'innovazione digitale e del libero mercato, il premier etiope rappresenta dal punto di vista umano molto simile a Trump il che potrebbe favorire un riavvicinamento. Sul dossier della Somalia invece, va sottolineato come alcuni dei tecnici vicini a Trump sono anche piuttosto critici delle istituzioni somale considerate anch'esse come dei free rider che utilizzano risorse americane senza riuscire a sconfiggere Al-Shabaab. Va da sé che l’approccio di Trump alla disputa sul Mar Rosso, potrebbe rivelare qualche sorpresa. Secondo alcuni rumors a Washington, infatti, il presidente potrebbe anche spingersi a riconoscere l'indipendenza del Somaliland.
Anche per quanto riguarda la guerra civile sudanese, Trump potrebbe optare per un atteggiamento di maggiore discontinuità rispetto al predecessore. Trump e i repubblicani sono infatti diffidenti in merito alle forze regolari sudanesi guidate da Al-Burhan, che percepiscono come troppo vicini al regime deposto di Al-Bashir, regime che in passato – ricordiamolo - appoggiò Bin Laden ospitandolo durante la sua latitanza. Non è quindi da escludere che Trump possa mostrarsi più ricettivo rispetto alle istanze delle RSF del generale Hemedti, qualora si arrivasse a nuovi negoziati tra le parti, negoziati che ovviamente gli Stati Uniti sotto Trump non puntano a promuovere o implementare come fatto dal suo predecessore.
In merito alla guerra nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), il presidente eletto potrebbe invece agire in continuità con il predecessore supportando le istanze di Kinshasa. Trump apprezza in particolar modo l’atteggiamento critico del presidente congolese Tshisekedi rispetto alle partnership con la Cina siglate dal suo predecessore. Considerando il crescente interesse degli Stati Uniti per i materiali critici del paese non è da escludere che Trump possa optare per un supporto più pronunciato della RDC armando l’esercito congolese contro gli insorti dell’M23. In questo contesto, Trump potrebbe risultare più incisivo di quanto non sia risultato l'equilibrismo dei democratici fra le due parti.
Trump, Africa, e contesto multipolare
L’approccio di Trump alle dinamiche del continente resterà quello di un attore vigile sui propri interessi in maniera molto più esplicita di quanto non avvenisse in passato. Dal punto di vista degli stati del continente questo approccio genera sentimenti ambivalenti. Da una parte la possibilità di trattare su singole questioni in un’ottica pragmatica e transazionale alimenta le speranze su una possibile cooperazione win-win. Dall’altra il ridimensionamento del ruolo degli USA nei consessi multilaterali spinge diversi stati (specie quelli storicamente filoamericani) a ripensare il loro posizionamento all’interno di questi contesti.
Che tipo di supporto possono aspettarsi, ad esempio, quei paesi che si troveranno (presto) a dover trattare con FMI e Banca Mondiale in merito al finanziamento del proprio debito pubblico? I leoni più forti sembrano pronti a capitalizzare in questi contesti sul nuovo ordine multipolare, i più deboli rimangono confusi. Ma l’Africa, come Trump punterà a guadagnare il più possibile dal nuovo contesto multipolare.
Vedi anche…
Mediterraneo Globale - La Settimana Mediterranea - 3/2025
Politica Estera - The Italian Compass #2/2025
Mediterraneo Globale - Visioni transatlantiche sul successo turco in Siria
Politica Estera - Scriptorium Italiae #1/2025